Ponte tra cronaca e storia
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991 - Presentazione di Elio Galasso
Risale a centoventi anni fa la più antica sintesi storico-geografica su Ponte, cittadina di millenarie vicende. Si tratta di cinque sole pagine, dedicate a quel piccolo nucleo urbano da Alfonso Meomartini nel 1870, poi stampate nella prima edizione de I comuni della provincia di Benevento. Storia, cronaca, illustrazione (Benevento, De Martini 1907; quindi Ricolo Editore 1970).
Per giunta, Ponte condivide il testo con Casalduni, il vicino centro abitato con cui, allora, costituiva un unico comune. Gli studi successivi non hanno ancora dato una visione d ‘insieme, anche se in tale direzione si sono mossi Bruno De Nigris, Adolfo Di Blasio, Renato Piscitelli. Ricerche specifiche sono state invece dedicate ad argomenti particolari, all‘Abbazia di Sant‘Anastasia innanzitutto, e poi alla nobiltà locale.
Come molti altri centri del Beneventano, Ponte merita tuttavia di più, e non soltanto per il fatto che dall ‘antichità all ‘Alto Medioevo - vale a dire nei secoli del maggiore suo dinamismo economico - la vita vi registrò tutto un susseguirsi di rimandi al capoluogo, cui essa è congiunta, piuttosto che separata, da una quindicina di chilometri del percorso del fiume Calore e della romana Via Latina che lo accompagna. Merita, Ponte, l’attenzione di quegli studiosi che l’avvertono come tassello mancante nella trama storica del Mezzogiorno interno, una trama tessuta non tanto dalle “gesta dei re “, come si suol dire, quanto dalla cultura e dal lavoro della gente.
In tale ottica ha lavorato per questo libro Giuseppe Corbo, pontese con responsabilità politiche in una civica Amministrazione che non rinuncia a ricercare una via di uscita ai consueti problemi del nostro Sud nelle pieghe di esperienze culturali che sembrerebbero non avere altro valore che quello antiquariale.
Per l’Autore, è chiaro, la modernità non assicura lasciti per l’avvenire. Egli non la trascura, ma intanto la scavalca a ritroso. Vale, per lui, l’equazione per cui al fallimento del moderno deve corrispondere il ritorno all ‘antico; che, nel suo caso, e rappresentato dall‘approccio diretto all‘oggetto materiale, al documento scritto. Questo ritorno egli non intende come pura e semplice restaurazione, evidentemente impossibile, di prospettive che la storia ha consumato consegnandole al “non più “, bensì come riscoperta di virtualità mai realizzate, di potenzialità inespresse ma ancora attive o attivabili, di ipotesi tuttora in grado di invertire le linee di tendenza che hanno determinato fino ad oggi il corso degli eventi.
Di qui l’urgenza di una ricostruzione per così dire genealogica della storia, che porti alla luce 1’ “altra storia “, quella che non è stata ma che ancora potrebbe essere. Voci inascoltate si levano dal passato, a spiegare come 1 ‘accaduto è accaduto in forza di opzioni che solo successivamente appaiono guidate dalla necessità.
Giuseppe Corbo premette che la sua opera è fondata sui documenti “senza alcuna aggiunta personale”: come se non fosse già un intervento personale la selezione del materiale pubblicato. La stessa larga attenzione dedicata alla fase sannitica significa che, nell ‘aprire gli scrigni del passato, egli dà priorità a quello più antico, dove sono contenuti, a suo avviso, i rimedi principali al problema che anche l’uomo pontese affronta nel Sannio odierno: gestire in forma originale la condizione di vita periferica senza dover rinunciare all ‘atavico rapporto organico con il proprio specifico ambiente.
Le poche tracce inedite della civiltà preromana - fra l’altro la ben nota Fibula di Ponte e le epigrafi funerarie romane di Caius Valerius Primicerius e di Lucius Pettidius Marcellinus di età imperiale da poco recuperate - sono prese in considerazione in pagine cariche di umanità. Il lettore non vi troverà una teoria unitaria, ma in compenso neppure tentativi di indottrinamento, magari rivolti agli allievi delle scuole locali cui questo libro sembra programmaticamente destinato.
Si aggancia, l’Autore, per l’origine longobarda dell ‘attuale centro abitato, alle ricerche che effettuai per la Rassegna Ritrovare Ponte da me diretta nel 1984. Scrivevo allora nel Catalogo: “L‘abbazia di Sant ‘Anastasia va posta a discriminante storica, più che cronologica, fra l’età antica e il processo di urbanizzazione di Ponte, documentato dal Castello e dall‘evolversi delle forme di vita legate al lavoro agricolo “. L‘insigne monumento, a due passi dal romano ponte di pietra che denominò la cittadina, si leva a monito visibile fra le testimonianze d’epoca.
Di qui in avanti, nel libro, il documento scritto prende il posto del manufatto, viene riportato e in parte discusso. Niente a che vedere, beninteso, con le edizioni a cui fa capo la storiografia scientifica. Giuseppe Corbo si muove su un piano tendente al narrativo, ancorché conciso.
La storia della gente si frantuma, così, in storie di individui, di pontefici e sovrani e feudatari, ma anche di persone comuni, di briganti e soldati, di prepotenti e ragazze violentate, di prelati e contrabbandieri, di ricchi e di pezzenti. E, soprattutto, si fa specchio di una vita quotidiana che l‘inchiesta murattiana rivelerà, allo schiudersi dell’Ottocento, con crudo realismo: ristrettezze abitative, lavoro e produzione tecnicamente arretrati, risorse insufficienti, scarsità di acqua, condizioni igieniche precarie.
Trasferita nel 1861 dal Mouse alla nuova provincia di Benevento, Ponte riagganciò dopo molti secoli il ruolo di satellite del capoluogo. L’acquisita autonomia comunale pose, nel 1913, le basi per scoprire ed utilizzare le potenzialità ignorate. Qui l’Autore chiude il discorso, tralasciando inutili mire di completezza nonostante la disponibilità di non poche altre fonti inedite d’archivio. Consapevole di avere adempiuto ad un dovere civico intimamente avvertito, e forse anche di aver dato il via ad una sorta di “biografia collettiva “di epoche, personaggi e imprese, egli offre il suo lavoro all’uso piuttosto che al giudizio altrui.
A studiare ancora e sempre il passato, mentre ci si attiva per la definizione di nuove responsabilità delle comunità locali nella realtà contemporanea. Fa appello, Giuseppe Corbo, alla curiosità di chi vorrà seguirlo per dialogare con lui attraverso queste pagine, che si rivelano in definitiva più preziose di molte trattazioni paludate.
Su tale versante, le complessità, le sfumature e le ombre dell ‘accadere umano, da lui descritte o suggerite, costituiscono 1 ‘epilogo inaspettatamente attuale del racconto su Ponte cominciato nel 1870 da Alfonso Meomartini con accenti di poesia:” S ‘erge sul superiore monticello, in una fitta di case con l’aguzzo campanile che spicca sul culmine della collina. Altri casolari si nascondono fra gli alberi, giù per la discesa fin presso alla stazione, fra le acacie, i fichi d ‘India e gli olivi. Il Calore scorre poco lungi...”
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991- I SANNITI E PONTE
Il territorio dei Sanniti era molto vasto e si estendeva dal fiume Sangro, a nord, fino alle sorgenti del Sele, a sud. Allinterno di questi confini coesistevano quattro stirpi:
1) al nord, lungo il bacino del Sangro, i Caraceni, con la città di Aufidena (Alfedena).
2) Lungo il massiccio del Matese, tra il Volturno e il Biferno,
i Pentri, con le città di Bovianum (Boiano), Venafrum (Venafro),Tereventum (Trivento), Aesernia (Isernià) e Pietrabbondante, sede di un santuario.
3) Tra le valli del Calore e dellOfanto gli Hirpini con le città di Maluentum (Benevento), Aeclanum (Mirabella Eclano), Abellinum (Avellino), Compsa (Conza), Trevicum (Trevico).
4) Dal bacino del Calore, fin sotto le falde del Matese, i Caudini, con i centri di Caudium (Montesarchio), Telesia (Telese), Saticula (Sant’Agata dei Coti), Allifae (Alife), Saepinum (Sepino).
Fu un popolo, quello dei Sanniti, che, seppure diviso in tribù, conservava una chiara fisionomia unitaria, come è dimostrato dalla sua civiltà e dalla sua lingua.
La civiltà sannita, insieme a quella etrusca e romana, fu inoltre tra le più progredite della Penisola, tanto da meritare gli apprezzamenti di scrittori come Tito Livio, Virgilio e Orazio.
Il Sannita viene definito come un popolo valoroso e laborioso, schivo del lusso e delle raffinatezze, ma non retrogrado. E’ certo che i Sanniti furono dei guerrieri fieri e bellicosi: ciò spiega la particolare cura che ebbero per le armi, ma è anche certo che essi furono dei bravi agricoltori, infatti vivevano per lo più nelle campagne che coltivavano con cura ed intelligenza.
Fu con questo popolo che la nascente potenza di Roma venne a scontrarsi, per la sua sete di espansione: Roma, infatti, dopo aver sottomesso le città laziali, volse le sue mire verso il sud della penisola. I Sanniti opposero una fiera e tenace resistenza all’avanzata romana, ottenendo nella seconda della tre guerre combattute una strepitosa vittoria. La prima guerra durò solo due anni, dal 343 al 341 a.C. e si concluse con la sconfitta dei Sanniti.
La seconda iniziò verso il 325 a.C. e fu combattuta per circa un ventennio. Nel 321 a.C., nelle gole di Caudio, i Romani subirono, ad opera dei Sanniti, forse la più umiliante sconfitta di tutta la loro storia. I Sanniti, guidati da Caio Ponzio Telesino attirarono i Romani, comandati dai consoli Tito Veturio e Postumio Albino, in una stretta gola presso Caudio e qui li accerchiarono. I consoli romani, riconosciuta vana ogni possibilità di scampo, andarono da Caio Ponzio a chiedere le condizioni di pace.
Queste non furono dure, ma vergognose: i Romani sarebbero stati lasciati liberi dopo essere passati, senza armi e col solo vestito che avevano addosso, sotto un giogo formato da due aste conficcate in terra, verticalmente, sulle quali ne era fissata un’altra trasversalmente in modo che chi vi passava sotto doveva necessariamente abbassare la testa. I Romani, anche se lasciati liberi, furono però umiliati nel loro orgoglio di soldati.
Quella dei Sanniti non fu una saggia decisione, perché, come aveva previsto Erennio, il vecchio e saggio padre di Caio Ponzio Telesino, i Romani mai avrebbero dimenticato l’onta subita. Erennio aveva consigliato in un primo momento di lasciare liberi, senza alcuna condizione, i soldati caduti nell’imboscata:
tale atto di clemenza e generosità non sarebbe stato dimenticato dal potentissimo popolo romano. Visto che questo suo consiglio non venne accettato, propose di ucciderli tutti, in modo che per parecchio tempo non si sarebbe più parlato di guerra.
Il vecchio Erennio fu un buon profeta, infatti il senato romano non ratificò il trattatodi pace. Dopo pochi anni, nel 316 a.C., ripresero le ostilità e i Romani costrinsero i Sanniti alla pace, dopo averli vinti a “Bovianum” (Boiano).
I Sanniti, anche se vinti, non furono, però, sottomessi e nel 298 a.C. ripresero la guerra per la terza volta; lo scontro fu molto duro, perché a fianco dei Sanniti combatterono, anche, Lucani, Etruschi, Galli Senoni, Sabini e Umbri. Ma nel 295 a.C. a Sentino, nelle Marche, i Sanniti e i loro alleati subirono una dura sconfitta da parte dell’esercito romano, comandato dal console Quinto Fabio Rulliano.
La guerra non terminò. I Sanniti, nonostante il ritiro degli altri popoli italici, continuarono la lotta nel Sannio e solo nel 290 a.C. furono sottomessi definitivamente. Le condizioni di pace furono miti: i Sanniti dovettero accettare l’egemonia di Roma, ma conservarono quasi intatta la loro autonomia e il loro territorio, controllato però da colonie romane.
Scrivere di Ponte nel periodo sannita è assai arduo per la totale mancanza di notizie e testimonianze risalenti a tale epoca. Si può solo ipotizzare la presenza di qualche insediamento appartenente a tale età. Questa ipotesi è suffragata dal ritrovamento di una tomba, con importanti reperti, di età sannitica.
La notizia di questa scoperta fu data per la prima volta nel corso di un convegno di studio sulla Magna Grecia tenutosi a Bari nel 1957. M. Napoli ne riporta la notizia in “La parola del passato” XII (1957) fasc. 53 pag. 135: «E’ noto che la valle del Calore e la zona intorno a Benevento avevano, fino agli ultimi anni, restituito scarso materiale dell’epoca pre-romana; perciò il ritrovamento occasionale di una tomba a Ponte in località 5. Barbato assume particolare importanza, anche se è sparito il corredo di vasi.
La tomba era ad umazione a fossa, coperta - sembra - da un tumulo di pietre. Del corredo sono state recuperate una punta di lancia di bronzo e una fibula a ponte con spillo mobile e staffa, formata da un disco ellittico, decorato con quadrati e triangoli sottilmente incisi.
La fibula, di un tipo che sembra peculiare della Campania, e la punta di lancia trovano analogia in oggetti delle tombe pregreche di Cuma e di quelle di Suessula, che non sembrano più recenti del sec. VIII a.C.»
Elio Galasso data questi due reperti tra il sec. VII e il VI a.C. Infatti dal suo scritto Tra i Sanniti in terra beneventana «Il modello di fibula a due pezzi deriva da prototipi dell’ultima età micenea rinvenuti a Creta e a Cipro e diffusi in età protostorica dalle originarie sedi della civiltà egeo-anatolica fino alla Sicilia e alla Spagna e di qui ridiscesi lungo le coste tirreniche della Penisola, seguendo le rotte del Mediterraneo documentate anche da monete e pesi Di qui l’ipotesi che il modello, giunto dal mare, in età preellenica sia stato portato a definitiva maturazione appunto nel Sannio fra il sec. VII e il VL a.C. »
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991 - TESTIMONIANZE DI EPOCA ROMANA
Conquistata tutta la Penisola, Roma volse le sue mire al controllo del Mediterraneo; era quindi, inevitabile che venisse a scontrarsi con un’altra grande potenza che aveva gli stessi interessi: Cartagine.
Cartagine si presentava in condizioni di superiorità rispetto a Roma: aveva maggiore ricchezza finanziaria e possedeva inoltre una potente flotta militare e mercantile. Grazie alle sue grosse possibilità finanziarie, poteva arruolare truppe mercenarie bene addestrate, in ogni paese del Mediterraneo.
Tuttavia, mentre Cartagine, che era una repubblica oligarchica, non poteva contare sulla fedeltà di popolazioni tenute soggette a gravate di imposte, Roma, invece, poteva essere certa della fedeltà dei suoi cittadini e della collaborazione delle popolazioni italiche, unite ad essa da vincoli di amicizia. Le due antagoniste si affrontarono in tre guerre per oltre un secolo, prima che l’una riuscisse a sopraffare l’altra. Se Roma alla fine risultò vincitrice fu soprattutto per merito delle popolazioni italiche e in particolar modo di quelle del sud. Dopo la sconfitta di Canne, quando per Roma sembrava tutto perduto, infatti, le città dell’Italia meridionale non cedettero ad Annibale e anche quando questi minacciò terribili persecuzioni rimasero fedeli a Roma.
Un esempio di questo fedele e leale attaccamento a Roma fu dato da Benevento e dai centri della Valle Caudina. Telese e i centri della Valle Telesina fecero, invece, parte di quelle città, con a capo Capua, che spontaneamente si allearono con i Cartaginesi. Questo diverso atteggiamento assunto da Telese ha una spiegazione: Roma, dopo aver vinto definitivamente i Sanniti, aveva cercato di raffreddarne l’amore per la libertà, mandando delle colonie in mezzo ai vinti.
Queste, oltre a svolgere vari uffici, avevano come compito principale quello di spiare i movimenti delle popolazioni sottomesse, in modo da poter stroncare sul nascere eventuali tentativi di rivolta. In questo modo il sentimento e il desiderio di indipendenza e autonomia andarono affievolendosi sempre più fino a scomparire quasi del tutto.
Quando Annibale arrivò in questi luoghi, dopo la grande vittoria sul Trasimeno, contava sulla sollevazione di queste popolazioni alle quali promise l’indipendenza, ma rimase deluso nel constatare come tale sentimento di autonomia si fosse ormai spento: nonostante l’appoggio dei centri telesini, infatti, la maggior parte dei centri sanniti si schierò con Roma. Non a caso parteggiarono immediatamente per Roma quelle città dove la politica delle colonie era stata più intensa.
Se Telese e gli altri centri della Valle Telesina si schierarono con Annibale fu perché in loro era ancora vivo il sentimento di indipendenza e questa fu vista come l’ultima possibilità per sottrarsi al giogo romano. Delle tre guerre combattute tra Roma e Cartagine, quella che interessò il Sannio direttamente fu la seconda. I Cartaginesi si trattennero in queste zone per circa quindici anni dal 217 a.C. (anno della battaglia del Trasimeno) al 202 a.C. (quando Annibale si ritirò in Africa per difendere Cartagine attaccata da Publio Cornelio Scipione). E’ a questo periodo che alcuni vorrebbero far risalire la nascita di Ponte
La datazione nasce da una erronea interpretazione dello scrittore latino Tito Livio. Infatti egli nei capitoli XIII e XIV del libro XXV delle “Storie” parla, certo, di un luogo fortificato a poche miglia da Benevento dove Annone avrebbe ammassato grano per i Capuani, ma questo non può essere assolutamente il luogo dove sorge l’attuale paese di Ponte. Si riporta di seguito la traduzione di quanto scritto da Tito Livio nei capitoli XIII e XIV del libro XXV delle “Storie”
« Essendo Annibale intorno a Taranto, e ambedue i consoli (romani) nel Sannio, ma sembrando voler assediare Capua, i Campani già sentivano la fame, guaio che suole essere (proprio) del lungo assedio, perché gli eserciti romani avevano proibito loro di fare la semente. Pertanto mandarono ambasciatori da Annibale a pregarlo che comandasse che del frumento fosse portato a Capua dai luoghi vicini prima che i consoli conducessero le legioni nei suoi campi e tutte le strade fossero occupate dai presidi dei nemici. Annibale comandò che Annone dal Bruzio (attuale Calabria) passasse in Campania e si desse da fare affinché fosse (dato) ai Campani abbondanza di frumento. Annone partito dal Bruzio con l’esercito cercando di evitare gli accampamenti dei nemici e i consoli che erano nel Sannio, avvicinandosi già a Benevento pose gli accampamenti in un luogo elevato a tremila passi dalla stessa città. Poi comandò che fosse portato, negli accampamenti, frumento dalle popolazioni alleate dei dintorni dopo aver dato delle guardie che accompagnassero quelle vettovaglie. Poi mandò a dire a Capua il giorno in cui fossero pronti negli accampamenti ad accogliere il frumento, avendo fatto venire da ogni parte ogni genere di veicoli e di giumenti. Ciò fu fatto dai Campani secondo l’abituale pigrizia e negligenza, furono mandati poco più di quattrocento carri e inoltre pochi giumenti.
Dato che questi erano insufficienti fu fissato un altro giorno per ritirare il frumento con maggiore disponibilità (di mezzi). Essendo state riferite ai Beneventani tutte queste cose come erano state fatte, questi mandarono ai consoli (romani) dieci ambasciatori — gli accampamenti dei Romani erano vicino Boiano — I consoli udite quelle cose stabilirono che Fulvio, al quale era toccata in sorte quella provincia, conducesse l’esercito in Campania.
Questi partito di notte entrò nelle mura di Benevento. Qui viene a sapere che Annone con una parte dell’esercito era partito per procurarsi frumento e che erano venuti nell’accampamento i Capuani con duemila carri e un’altra turba disordinata e inerme e che tutto si faceva nella confusione e nella paura e che gli accampamenti erano sguarniti. Conosciute queste cose a sufficienza il console comanda ai soldati che preparino soltanto le insegne e le armi per la prossima notte; che si dovevano assediare gli accampamenti cartaginesi. Partiti dopo aver lasciato tutti i bagagli e impedimenti a Benevento pervennero agli accampamenti (cartaginesi) poco prima del giorno ed indussero tanto spavento che se gli accampamenti fossero stati posti nel piano potevano essere presi, senza dubbio, al primo assalto. Grazie all’altezza del luogo e alle fortificazioni che li difendevano, non potevano essere avvicinati da nessuna parte se non con una salita ardua e difficile. Alla prima luce si accese una grande battaglia.
I Cartaginesi riescono a difendersi molto bene (data la loro più favorevole posizione). I Romani riescono a raggiungere a mala pena il fossato, ma con molte ferite e danno dei soldati. Pertanto, convocati ambasciatori e tribuni dei soldati, il console dà ordine di astenersi da questa impresa temeraria, ritenendo più sicuro aspettare l’arrivo dell’altro collega (Appio Claudio) con il suo esercito. Il clamore dei soldati che disprezzavano un ordine così vile indusse il console ad abbandonare questa idea. I combattimenti ripresero e alla fine i Romani riuscirono ad espugnare la fortezza, grazie a numerosi atti eroici dei loro soldati. Nella battaglia furono uccisi oltre diecimila nemici (Cartaginesi), furono presi più di settemila uomini con tutti i Campani che erano venuti per il frumento e tutti i carri e le giumente. Poi distrutti gli accampamenti dei nemici si ritornò a Benevento e ivi ambedue i consoli — infatti dopo pochi giorni vi giunse anche Appio Claudio — vendettero e divisero la preda. Annone, quando gli fu annunziata la sconfitta, si trovava a Cominio Ocrito e con i pochi frumentatori che aveva, per caso, con sé ritornò nel Bruzio ad uso d’una fuga più che d’una marcia ».
Come si può vedere Tito Livio è molto categorico nell’affermare che il luogo fortificato da Annone si trovava a “tria milia passuum ab ipsa urbe”. Considerando che il “passus” corrisponde a un metro circa, detto luogo non poteva quindi trovarsi dove sorge attualmente Ponte che dista da Benevento non meno di dodici chilometri. Per cui si ritiene che sia da ricercarsi sempre a nord di Benevento, e quindi nei pressi della Via Latina, ma non molto lontano dalla città.
C’è da dire, inoltre, che non tutti sono nemmeno d’accordo nel ritenere che l’accampamento di Annone fosse sulla Via Latina e quindi a nord di Benevento. Uno storico locale, M. Rotili, (nel suo Benevento e la provincia sannitica Roma 1958) afferma che l’accampamento fu posto tre miglia a sud della città e quindi nei pressi della via Appia. Dal punto di vista dei collegamènti viarii con Capua tutte e due i luoghi indicati possono essere accettati. Benevento, infatti, era collegata con Capua e, quindi, con Roma, da due importanti arterie: la via Appia (attraverso la Valle Caudina) e la via Latina (attraverso la Valle Telesina).
Bisogna però fare due considerazioni:
1) Annone non razziò grano alle popolazioni dell’agro beneventano rimaste fedeli ai Romani come asserisce il Rotili, ma, come dice Tito Livio, comandò che il frumento gli fosse portato dalle popolazioni alleate, dei dintorni (Inde iussit devehi in castra frumentum ex populis sociis circa. Dato che le uniche popolazioni alleate dei dintorni erano quelle della Valle Telesina non è pensabile che Annone si sia accampato a sud di Benevento obbligando i suoi alleati, per rifornirlo di grano, a passare per la città con il grosso rischio di essere bloccati e depredati dai Beneventani che si erano mantenuti fedeli a Roma.
2) E’ noto che, oltre a Benevento, tutti i centri della Valle Caudina erano fedeli alleati dei romani, quindi non si spiegherebbe come Annone, scaltro ed esperto condottiero, potesse porre i suoi accampamenti in pieno territorio nemico pensando di procedere alla raccolta e ammasso del grano in tutta tranquillità.
Per quanto detto, anche non volendo accettare quanto sostiene M. Rotili, si può comunque affermare, con una certa sicurezza, che Ponte non è sorta per opera di Annone. Si può supporre tutt’al più la presenza di qualche piccolissimo insediamento sull’altura che dominava il punto dove la via Latina attraversava il torrente Alenta. Sorgeva qui un imponente ponte i cui resti ancora visibili consistono in alcuni blocchi di pietra, che facevano parte di una spalla del Ponte, agganciati tra di loro con dei ferri.
Una fotografia pubblicata da Elio Galasso (Ritrovare Ponte, Ponte 1984) ne mette in risalto la costruzione romana in “opus incertum” di rilevante dimensione. E’ chiaro che se qualche costruzione c’era doveva trattarsi di un avamposto militare, messo lì per poter facilmente controllare la sottostante via che strategicamente era molto importante, in quanto punto di passaggio obbligato per chi dalla Valle Telesina voleva portarsi a Benevento e viceversa. C’è da dire ancora che recentemente, nei pressi del suddetto ponte sono venuti alla luce due cippi funerari del Il - III sec. d.C.
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991 - L’ABBAZIA DI SANT’ANASTASIA E L’INSEDIAMENTO LONGOBARDO
Il primo documento che cita Ponte (Ponte S. Anastasiae) è un diploma databile all’anno 980 con il quale il principe Longobardo di Benevento Pandolfo I Capodiferro, dietro preghiere del conte Adelfredo donava il monastero di S. Anastasia a Giovanni abate del monastero di S. Lupolo e Zosimo in Benevento, con facoltà di edificarvi un castello e renderlo abitato con dipendenze del monastero.
Questo è il più antico documento che parla del monastero di “S. Anastasia” ma è quasi certo che la sua costruzione sia avvenuta circa due secoli prima, nell’Vili secolo d.C. A circa un secolo prima sarebbe, invece, da far risalire la nascita di un altro monastero, che sorgeva poco distante dal primo, e dedicato a San Benedetto.
Nel VII secolo, infatti, i monaci benedettini cominciarono ad attuare praticamente la regola ‘ora et labora” dettata alcuni decenni prima dal fondatore del loro ordine, S. Benedetto da Norcia (430-547). Anche nelle nostre zone ci fu un fiorire di monasteri benedettini, i cui monaci, oltre a pregare, si prodigarono per bonificare e dissodare i terreni mai coltivati, servendosi anche di famiglie di coloni asserviti ai monasteri.
Il monastero era retto da un abate eletto dai monaci stessi. Ad ogni monaco veniva assegnato un compito secondo le sue capacità: i più adatti e robusti erano addetti ai lavori dei campi e a tutte quelle opere manuali necessarie al mantenimento della comunità; i più capaci culturalmente erano addetti all’istruzione dei novizi e dei figli dei coloni. Gli altri si occupavano dell’amministrazione del monastero, della cura degli ospiti e così via.
Le popolazioni che vivevano all’ombra dei monasteri, oltre ad essere al sicuro da eventuali saccheggi vi trovavano anche lavoro. Grazie all’operosità di questi monaci, che alternavano il lavoro alla preghiera, l’aratro alla croce, si iniziarono a coltivare terreni abbandonati da lungo tempo. Dentro i loro possedimenti (che a volte erano molto vasti) furono piantati alberi, fu seminato grano, prosciugate paludi, arginati fiumi, costruiti ponti e strade. Fu così che intorno a questi monasteri benedettini si formarono borgate e villaggi. L’abbazia diventava un polo intorno al quale veniva a ricomporsi la società sconvolta dalle invasioni barbariche.
Oltre a quello di aver ricomposto una società disgregata, ai monaci benedettini va un altro merito: quello di aver convertito al cristianesimo le popolazioni barbariche che avevano occupato le nostre terre. Si era infatti da poco conclusa l’invasione dei Longobardi che si erano spinti verso il sud della penisola guidati da Zottone. Questi si era staccato dal grosso del suo popolo, stanziatosi nel nord Italia, e attraverso l’Appennino era giunto nel Sannio intorno all’anno 570 d.C.
Principale centro sannita era Benevento; fu quindi naturale che i Longobardi, dopo averla conquistata, ne facessero la capitale del loro ducato. Zottone regnò per circa venti anni ampliando di molto i confini del suo ducato: conquistò e sottomise, oltre all’attuale Campania e Basilicata, anche parte della Puglia e della Calabria. Morto Zottone gli successe Arechi I, che regnò per cinquanta anni: durante il suo lungo regno continuò la politica espansionistica del suo predecessore, conquistando buona parte dell’Italia meridionale. Alla sua morte, avvenuta nel 641, dopo un breve regno del figlio Aione, salì al trono Rodoaldo, che regnò solo cinque anni.
Gli successe il fratello Grimoaldo, che resse il ducato sino al 662, anno in cui a Pavia (capitale del regno) cinse la corona di re dei Longobardi. A capo del ducato di Benevento fu posto il figlio Romoaldo. Fu durante il suo regno che in queste zone si verificò la penetrazione dei benedettini e la conseguente conversione dei Longobardi al cristianesimo.
Principale artefice di questa conversione fu San Barbàto, un sacerdote originario di Castevenere, diventato poi vescovo di Benevento nel 663. Un valido aiuto gli venne anche da Teodorata, moglie di Romoaldo e figlia del duca Lupo del Friuli. Fu in questo periodo che nel territorio di Ponte fu costruita la badia di “San Benedetto”.
Essa è da ritenersi per il suo titolo la più antica e forse la prima eretta nella nostra Chiesa al tempo di San Barbato nel VIIsec. Sorgeva poco lontano dall’attuale centro abitato, sulla strada che da Ponte porta a Fragneto Monforte. Nel Libro Magno si hanno notizie della chiesa badiale intitolata anch’essa a San Benedetto «San Benedetto possedeva un territorio contiguo alle mura della Chiesa di detto Santo..» «San Benedetto possedeva un territorio lavorandio di moia venticinque in circa nel quale terreno sta la Chiesa ». Si sa che nel Sinodo celebrato nel 1645 dal Vescovo Marioni nella Chiesa Cattedrale della «SS. Trinità alias Sancti Leonardi » di Cerreto, fu presente «Dominus MarcQllus Patavinus abbas Sancti Benedicti in Terra Pontis ». Un altro abate, « Illmus Dominus Andreas Mazzaccara Castri Sancti Benedicti Castri Pontis », fu presente al Sinodo del 17 maggio 1676 celebrato anch’esso nella Chiesa Cattedrale della « SS. Trinità alias Sancti Leonardi» di Cerreto.
Da una Bolla del 16maggio 1722 si rileva che l’abate dell’epoca fu Pietro Giamei, mentre con Bolla del luglio 1723 fu nominato abate don Domenico Mastrobuoni di Cerreto
Si hanno ancora notizie della Chiesa in una lettera che data 4 marzo 1822 diretta al Signor Presidente della Commissione diocesana di Cerreto, nella quale si legge: « . . . . Abbiamo passato la notizia ai signori Guglielmucci di Casalduni, compratori della Badia di San Benedetto, perché presentassero l’istrumento della compra ». La lettera reca la firma di Nicola Capobianco — pel sindaco assente — e di Antonio arciprete Ventucci.
Di circa un secolo dopo (VILI) è da ritenersi l’abbazia di « Sant’Anastasia » che era situata lungo la via Latina alla confluenza del torrente Alenta con il fiume Calore. Viene citata per la prima volta nel 980 nel famoso diploma di donazione del principe longobardo Pandolfo Capodiferro.
Nel 1137 la troviamo insieme ad altre chiese quali S. Georgii in Fenucleo, S. Ioannis in Torrecuso, S. Martinii e S. Dionisii (di Ponte) in possesso di Montecassino come risulta da un diploma dell’ Imperatore Lotario confermato nel 1169 da un altro diploma di Enrico VI e da una bolla di Papa Onorio III.
L’abbazia fu sede di parrocchia fino al 1569 anno in cui i cittadini di Ponte, come si legge in un documento dell’epoca,(1) d’accordo con le autorità ecclesiastiche decisero di trasferire il Sacramento dell’Eucarestia e della Estrema Unzione nella chiesa della “Santissima Trinità” dove venivano celebrati pure i matrimoni. La chiesa si trovava « extra moenia quae distat ab ipso castro per iactum lapidis »
I Sacramenti restaròno nella chiesa della Santissima Trinità per pochi anni. Infatti, nel 1596, come si legge in una convenzione tra i cittadini e l’arciprete di Ponte, essi passarono nella nuova chiesa del Santissimo Rosario: « Il giorno 3 settembre 1596 nel Castello di Ponte ed esattamente nella venerabile Chiesa del Santissimo Rosario di detto Castello, alla presenza dell’Illustrissimo e Reverendissimo Eugenio Firmano per grazia di Dio e della Sede Apostolica Vescovo Telesino, in occasione della santa Visita nello stesso Castello si sono costituiti Antonio Vitello e Antonio Maio economi della Confraternita del Santissimo Rosario, Antonio Ventucci, l’arciprete Claudio Ventucci e alla presenza di quasi tutto il popolo avendo, detto Castello di Ponte, la matrice parrocchiale sotto il titolo di Santa Anastasia molto lontana dal detto Castello et abitato, esso arciprete e tanto alcuni delli suoi prossimi predecessori per comodità dell’amministrazione del Santissimo Sagramento dell’Eucarestia e della Estrema Unzione ànno voluto per il passato, ancora al presente, tenere e conservare detti Santissimi Sagramenti in detta Chiesa sub titulo della Santissima Trinità di detto Castello sita simelmente extra le mura et abitato di detto Castello per un tiro di pietra, chiesa sola et isolata nella quale per il passato si è commesso furto, e ànno rubato la piside d’argento dove si conserva il Santissimo Sagramento dell’Eucharestia.
E perché li stessa Chiesa della Santissima Trinità è anche molto incommoda per l’amministrazione di detti Sagramenti e nuovamente è stata per essi cittadini e confraternita del Santissimo Rosario edificata una nuova Chiesa dentro l’abitato di detto Castello sotto il titolo del Santissimo Rosario con luogo per sacrestia, un commodo d’altare del Santissimo Rosario, nell’atto di santa Visita è parso a Monsignore predetto e detto Arciprete, eletti e cittadini di detta Terra molto espediente, predetto Santissimo Sagramento dell’Eucharestia e dell’oglio degl’infermi et altri ogli sacri si trasferissero in detta nuova Chiesa del Santissimo Rosario, sì per magior decenzia di detti Sacramenti e per più sicura conservatione».
Agli arcipreti incomberà l’obbligo di celebrare la santa Messa in « Santa Anastasia » il 15 gennaio di ogni anno. Queste abbazie erano costruite generalmente ai lati delle più importanti vie di comunicazione anche per poter dare aiuto e ristoro ai numerosi viandanti. Proprio per la loro posizione furono in seguito soggette a continui saccheggi da parte dei vari eserciti che continuamente devastavano questi luoghi.
Le popolazioni che vivevano intorno alle abbazie furono costrette ad abbandonare le loro case e a trasferirsi in posti più facilmente difendibili dove costruirono e fortificarono torri e castelli. L’abbazia di S. Anastasia e il piccolo nucleo che intorno ad essa si era formato non furono, certo, risparmiati da incursioni e saccheggi. Le poche famiglie rimaste per sopravvivere furono costrette a spostarsi sulla sommità della collina che dominava sia l’abbazia che la vicina via. Il luogo era abbastanza vicino all’abbazia dove restavano i monaci. La popolazione, una volta trasferitasi, pensò subito a fortificare e rendere inaccessibile il nuovo insediamento: a tale scopo costruì un poderoso castello cinto da solide mura. Prima della fine dell’XI secolo il trasferimento della piccola comunità dall’abbazia al castello doveva essersi già completato. L’Ughelli in Italia Sacra - Tomo VIII scrive: « Roffrido Praesule anno 1087 Victor III Beneventi Synodum celebravit mense Augusto, qua tempestate idem Roffridus Ecclesiam sancti Dionysii sitam extra castrum pontis sancti Anastasiae Comitatus Thelesini solenni ritu, dedicavit ».
L’Ostiense e Pietro Diacono nel libro IV cap. XVI della Cronaca Cassinese scrivono che nel 1095 essendo abate di Montecassino Desiderio, Baldovino Signore del Castello di Ponte S. Anastasia nel Contado di Telese donò a S. Benedetto:
« Ecclesiam S. Dionisii de praedicto Castello S. Anastasiae, quam ipse, valde parvulam reperiens ac vetustam a fundamentis renovavit et ampliavit, eamque nonnullis possessionibus atque colonis dotans et mansiones in circuitu constituens, Domnum Roffridum Archiepiscopum Beneventi illam dedicavit ».
Oltre alla chiesa di S. Dionigi altre chiese e terreni furono oggetto della donazione. Alessandro di Meo nei suoi Annali Critici e Diplomatici scrive «videlicet Ecclesiam S. Mariae quae in Arvente vocatur cum pertinentiis suis, Ecclesiam S. Angeli quae dicitur ad Gruttam cum omnibus pertinentiis suis, Ecclesiam Sancti Barbati cum omnib us pertinentiis suis,
Ecclesiam S. Iuliani quae constructa est in Territorio Limatae quae dicitur ad pugnam. Insuper et Ecclesia S. Erasmi intrafines ipsius Castelli Pontis S. Anastasiae in loco ubi dicitur Ferrarii cum molendinis sex in Fluvio Alenti juxa ipsum Castellum Pontis et piscaria in fluvio Calore ubi dicitur Decembri, al Combì Osberto filius Ranulphi Comitis
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991 - PONTE FEUDALE DALLA CONQUISTA NORMANNA ALL’ETA’ NAPOLEONICA
Primo signore del castello di Ponte fu, quindi, Baldovino; era questi un vassallo del conte Rainulfo cognato di re Ruggiero il normanno.
Tra il conte Rainulfo e il re Ruggiero cerano dei rapporti molto tesi che sfociarono in lotta aperta quando il conte Rainulfo fu preferito, dall’imperatore Lotario e da Papa Innocenzo Il, al cognato, nell’assegnazione del ducato di Puglia.
La guerra fu lunga e cruenta, durò tra alterne vicende dal 1134 al 1139. lI re Ruggiero, penetrato nei possedimenti del conte Rainulfo, li mise a ferro e fuoco e le popolazioni dovettero subire saccheggi e devastazioni. La prima città a cadere fu Avellino, poi dopo aver incendiato il castello di Prata l’esercito del re Ruggiero passò nel beneventano conquistando i castelli di Campolattaro, Fragneto, Pontelandolfo e Guardia.
Nel 1134 ci fu la presa del castello di Ponte, che fu dettagliatamente raccontata dall’abate Alessandro da Telese nel cap. LXI della sua opera De rebus gestis Rogerii Siciliae regis:
«Captaque itaque Nuceria, militarique in ea delegata custodia ad invadendum Ranulphi Comitis terram Rex prorsus animum figit. Quapropter coacto in unum exercitu Padulum proficiscitur, indeque motus ad obtinendum oppidum nomine Pontum accelerat, quod quidam Magnas Balduinus nomine sub Rànulphi Comitis dominio tenebat, cujus immensam Pontisii eminus cernentes expeditionem, mox terrore perdussi accedentem illam sine ulla repugnatione intrare permittunt. Quo capto die ipsa continuo ad castrum quod nominatur Limata, aggrediendum properat, quod cito comprehensum, simulque depopulatum, novissime vero ignis crematione omnino deletur: erat inim et illud alterius praedicti Comitis Optimatis, cujus vocabulum Radulphus de Bernia dicebatur
Nel 1140 la morte di Rainulfo, avvenuta a Troia nelle Puglie poneva termine alla lunga guerra e sanciva la definitiva affermazione della monarchia normanna.
Ponte, tolta a Baldovino, che era stato fatto prigioniero dal re Ruggiero, fu annessa alla baronia di Fenucchio (3) tenuta da Tommaso di Fenucchio. Ponte divenne così suffeudo di Guglielmo di Rampano come è provato dal Catalogo dei Baroni normanni, sotto il titolo Baronia Feniculi “N0 983 Willelmus de Rampano, sicut dixit, tenet de eodem Thomasio Pontem quod est feudum trium militum, et de Casalatore feudum unius militis et cum augmento obtulit milites VIII et servientes X”.
Come si vede Guglielmo di Rampano oltre a Ponte teneva, sempre in nome dei Fenucchio, anche Casalduni. Ponte appartenne alla Baronia dei Fenucchio per appena un decennio. Nel 1151 passava ai Sanframondo, famiglia della quale fu capostipite Raone, detto il Normanno, il quale per aver parteggiato per re Ruggiero nella guerra tra questi e il cognato Rainulfo ottenne in premio l’assegnazione di diversi possedimenti che precedentemente erano stati dei vassalli di Rainulfo.
Il figlio di Raone, Guglielmo Sanframondo, fu barone oltre che di Ponte anche di Cerreto, Guardia Sanframondi, Limata, Pietraroja, S. Lorenzo, Faicchio e Massa Superiore ed Inferiore. Sposò Maria di Peroleo (4)dalla quale ebbe un figlio che gli succedette nel 1173 con il nome di Guglielmo II. Questi sposò una nobile a nome Sibilla, della quale non si hanno altre notizie. Dalla loro unione nacque Giovanni I che succedette al padre nel 1190. (5)
A Giovanni I successe il figlio primogenito Guglielmo III che fu signore di questi luoghi dal 1227 al 1272. Nel 1239 venne nominato dall’imperatore Federico II “Viceré e Capitano Generale delle province di Terra di Lavoro e Molise” sposò la nobile normanna Adelisia de Dragoni, dalla quale ebbe due figli: Giovanni Il che diventerà Viceré della provincia di Abruzzo e Francesco Barone di Quatrano e Goffiano.
Fu durante il suo dominio che le nostre terre cambiarono di nuovo padroni, dai normanni agli Angioini. 1113 Dicembre 1250 moriva Federico II, lasciando erede dell’Impero e del Regno di Sicilia il figlio Corrado IV, reggente in Sicilia e in Italia il figlio naturale Manfredi. Deceduto l’imperatore Corrado IV (1254) e sparsasi la notizia, risultata poi falsa, della morte del figlio Corradino, Manfredi si fece proclamare re di Sicilia (1258). Il papa dell’epoca, Urbano IV, non solo non ratificò tale nomina ma lo scomunicò addirittura.
Il suo successore Clemente IV andò ancora oltre invocando l’aiuto di Carlo D’Angiò, fratello del re di Francia, al quale offrì il regno di Sicilia. Carlo D’Angiò accettò l’invito del papa e, per via mare, venne a Roma dove fu incoronato. Il 20 gennaio 1266 l’esercito francese partì da Roma: Manfredi si era preparato allo scontro presso Capua ma, vistosi aggirato, per la caduta di S. Germano, ripiegò su Benevento attestando le sue truppe sulla riva sinistra del Calore (nella zona di Ponticelli).
Carlo D’Angiò, intanto, percorrendo la via Latina dopo aver attraversato Alife, Piedimonte, Telese e Ponte il 25 febbraio giungeva in vista di Benevento e schierava le sue truppe sulle colline di Roseto e S. Vitale. Lo scontro estremamente duro, avvenne il 25 di febbraio 1266 nella pianura tra la riva destra del Calore e le colline di S. Vitale e della Fasanella. L’esercito svevo fu sconfitto, anche per il tradimento di numerosi baroni, primo tra tutti il conte di Caserta, cognato di Manfredi per averne sposato la sorella Violante. Carlo D’Angiò giunse a Benevento attraverso la via Latina e quindi dovette necessariamente attraversare le terre tenute dai Sanframondo i quali non solo non contrastarono il suo passaggio ma addirittura lo agevolarono. La loro condotta sarà stata certamente un abile mossa dal punto di vista politico, ma non rende onore al loro nome in quanto si tratta di puro tradimento nei confronti di una casa regnante che era stata molto generosa con la loro famiglia. Questo ambiguo atteggiamento non valse loro la riconoscenza del nuovo sovrano: nel 1269 venivano privati del possedimento di Ponte che insieme a Torrecuso, Fragneto e Apollosa veniva dato in dono a Giovanni Frangipane della Tolfa che, con il suo tradimento, aveva permesso la cattura e la successiva uccisione di Corradino di Svevia.
Qualche anno dopo Ponte, insieme ad altri comuni vicini quali Casalduni e Torrecuso, passava al giustizierato del Principato Ulteriore o Ultra. Nel Cedolario del 1320 Ponte, che formava una università autonoma, viene chiamato casale Pontis e tassato per once 3, tarì 15, grana 18. Casaltonum (Casalduni) nello stesso anno è tassato per once S, grana 16. Venti anni dopo Ponte risultava disabitata come si legge da una Bolla del 1351 di Papa Clemente VI, spedita da Avignone, che delimitava i confini del territorio beneventano: «In primis Castrum Pontis inhabitatum deinde ascendendo ad Castrum Casaldoni ».
Come si vede Ponte in tale anno era disabitato. Ciò è motivato dal fatto che nel decennio precedente in queste zone si erano verificate tre gravi calamità: la carestia del 1341, l’epidemia di peste del 1343 e infine il tremendo terremoto del 1349. Bisogna però chiarire che quando nei documenti o carte dell’epoca si usa il termine “inhabitatum” (disabitato) si vuole indicare un luogo non importante come presenza umana e come produzione tanto da dare una rendita feudale. Non è detto perciò che Ponte fosse disabitato nel senso che diamo noi a tale parola; la presenza umana poteva anche esserci, ma non era rilevante ai fini della tassazione.
Dopo un breve dominio della potente famiglia napoletana dei Brancaccio, troviamo di nuovo Ponte in possesso dei Sanframondo nella persona di Tommaso, figlio di Giovanni III e Giovanna di Sus. A Tommaso succedette il figlio Niccolò avuto in seconde nozze da Francesca Fossaceca o Caracciolo Baronessa di Fossaceca. (6) Nel 1419 Barone di Ponte fu nominato Urbano secondogenito di Niccolò; a questi succedette il figlio Giovanni VI, detto anche Giantommaso “De Ponte” dal nome del feudo da lui posseduto.
Fu durante il suo dominio che il re dell’epoca, Ferrante I D’Aragona, con diploma del 16 aprile 1482, concesse al suo consigliere Giovanni VI di Sanframondo “annue onze 40 per sé, suoi heredi et successori sopra le nove impositioni del Regno, et signanter sopra la terra di Ponte in escambio della abolitione del passo di detta terra sospeso per comodo et utilità comune”.
Molto probabilmente l’intervento del re si era reso necessario perché il pedatico era diventato talmente oneroso, da arrecare grave detrimento al commercio. Come si vede, il pedatico fu abolito, ma in compenso al barone vennero assegnate 40 once d’oro annue; nonostante tale provvedimento il pedatico si continuò a riscuotere per molti anni ancora, e fino a qualche decennio addietro si conservava ancora la pietra su cui erano scritte le tariffe. (7) Il successore di re Ferrante I, Alfonso Il d’Aragona, con privilegio sottoséritto in Napoli il 18 giugno del 1494 riconfermò a Giovanni VI l’investitura del Castello di Ponte, abitato, e del Castello di Monterone, disabitato. Il già citato Giovanni VI Sanframondo sposò Sancia Carafa dalla quale non ebbe figli. Essendo lui morto senza eredi cercò di succedergli Tommaso Sanframondo figlio del cugino Antonio. Ma poiché Tommaso non godeva della fiducia del sovrano, questi, in data 3 novembre 1502, ordinò al nobile Santoro Seneca di prendere possesso del castello di Ponte, e del feudo disabitato di Monterone nell’interesse del fisco e di alcuni figli naturali di Giovanni Sanframondo. Successivamente Consalvo de Cordova viceré di Napoli, in nome del re Ferdinando il Cattolico con diploma del 23febbraio 1404 vendette i due feudi ad Andrea di Capua, duca di Termoli, con il patto che questi corrispondesse a Sancia Carafa moglie del defunto Giovanni VI una congrua rendita.. Nel 1506
Andrea de Capua riceveva dal re Ferdinando il Cattolico anche l’investitura del feudo di Fragneto. Alla morte di Andrea il figlio Ferrante in data 30 novembre 1512 ebbe dal re oltre all’investitura del ducato di Termoli e del contado di Campobasso anche quella di altri feudi tra i quali Ponte e Monterone. Successivamente nel 1516 questi due feudi, insieme a quello di Fragneto, furono dallo stesso Ferrante venduti, con patto di ricompera a Margaritone Loffredo. Sei anni dopo nel 1522 Ferrante di Capua, avvalendosi del patto di ricompera, cedette i feudi di Ponte, Monterone e Fragneto per 8.000 ducati a Diomede Carafa, conte di Maddaloni. Diomede Carafa tenne questi tre feudi per poco tempo; infatti, appena due anni dopo li vendeva, insieme alla Torre di Brisentino in Puglia, per 11.000 ducati, a Boffilo Crispano ricevendo il regio assenso in data 25 maggio 1524. A Boffilo Crispano, morto nel 1526, successe il figlio Decio. La Regia Camera della Sommaria in data 14 luglio 1546 obbligava Decio Crispano a pagare il doppio del rilevio (8) sulle terre di Fragneto, Monterone e Ponte per non aver denunciato in tempo utile la morte del genitore. Nel 1544 Decio Crispano vendette il Castello di Ponte e il Feudo di Monterone a Giovan Berardino Carbone ricevendo da questi 9.300 ducati. Il viceré dell’epoca, Pietro de Toledo, diede il suo assenso in data 21 maggio dello stesso anno. Giovan Berardino Carbone vendette la terra di Ponte per 5.000 ducati, con patto di ricompra, a Diana de Frigiis Penatibus della Tolfa. Detto feudo insieme a quello di Monterone fu da questa, previo assenso di Giovanni Berardino Carbone e della moglie Ippolita Toraldo, venduto a Rinaldo Carafa 1° per il prezzo di 8.000 ducati. L’istrumento di compra venne stipulato a Napoli in data 24 marzo 1546 dal notaio Antonio Castaldo e ricevette il regio assenso in data 7 ottobre 1549.
Alla morte di Rinaldo Carafa I avvenuta 18luglio del 1561, gli successe il nipote Rinaldo Il che ereditò oltre ai feudi di Ponte e Monterone in provincia di Principato Ultra, anche quelli di Cusano in Terra di Lavoro e Molise e Civitavecchia in provincia di Molise.Successivamente Rinaldo Il vendeva il casale di Ponte e il feudo di Monterone per 1.200 ducati a Niccolantonio Caracciolo, Marchese di Vico, ricevendo il regio assenso in data 11 febbraio 1563.
Niccolantonio Caracciolo oltre ai due feudi di Ponte e Monterone assegnò per 32.900 ducati anche i feudi di Torrecuso, Torrepalazzo e Finocchio alla propria madre, Vittoria Carafa dei Duchi di Nocera, in pagamento della dote di lei; tale contratto ricevette il regio assenso in data 8agosto 1572 da parte del Cardinale de Granvela viceré di Napoli.
Vittoria Carafa moriva il 18settembre 1584; il nipote Filippo Caracciolo figlio di Niccolantonio gli succedeva nei suoi possedimenti pagando il rilevio alla regia Corte in data 19 novembre 1585.
Successivamente, su istanza dei creditori del citato marchese di Vico Filippo Caracciolo, il tribunale del Sacro Regio Consiglio vendé a Fabrizio Sarriano già signore di Casalduni il feudo di Ponte con le difese di “Aspro e Pantano”: il prezzo pagato fu di 17.000 ducati. L’istrumento di vendita venne stipulato dal notaio Agnello, de Martino di Napoli il 27 novembre 1585; il regio asenso fu concesso in data 3 marzo 1587 dal conte de Miranda viceré di Napoli.
I Sarriano erano giunti in questi luoghi nel 1538 quando un Pietro Sarriano aquistò da Diomede Carafa 20 per 7.000 ducati il castello di Casalduni ed il feudo di Ferrarise.
La famiglia detta anticamente de Sarùs era originaria di Napoli: tra i suoi personaggi più illustri spicca un celebre maestro di musica. Domenico che, visse nel XVI secolo e che fu nominato per la sua arte e sensibilità maestro della real cappella. Aniello, poeta, diede alle stampe: Gli elementi armoniosi, le Poesie, la Limosina parabola sacra, ed altro. Francesco Antonio fu dei Chierici Regolare ministro degli infermi, filosofo, teologo e famoso predicatore.
Alessio noto giuriconsulto visse a Napoli nel XVIII secolo; tra le sue opere si ricordano Istoria del Regno di Napoli, Terminologia Puteolana, Codice delle leggi del Regno di Napoli, Lettera antifilosofica. L’armadi famiglia era di azzurro con una fascia d’oro accompagnata in capo da un leone coronato uscente dalla fascia e sotto da tre stelle, il tutto d’oro. Da questo momento i destini di Ponte e Casalduni saranno accomunati in quanto essi resteranno in possesso dei Sarriano fino al 1806 anno dell’abolizione nel regime feudale.
Fabrizio Sarriano donò le terre di Ponte e Casalduni nonché il feudo di Ferrarisi al figlio primogenito Pietro IL in occasione della promessa di matrimonio tra questi e Luisa de Leyva figlia di Antonio, principe di Ascoli. Bisogna aggiungere che tale donazione avrebbe avuto effetto solo dopo la morte del predetto Fabrizio. Successivamente con diploma sottoscritto in data 3 aprile 1602, reso esecutivo in Napoli dal viceré Francesco de Castro il 31 marzo dello stesso anno, il re Filippo Il di Spagna accordò il titolo di conte di Casalduni a Fabrizio Sarriano e ai suoi eredi e successori in considerazione della nobiltà della sua famiglia e dei servizi da lui resi come Giustiziere della città di Napoli, e da suo padre Pietro, Regio consigliere della Camera di Santa Chiara.
Nell’anno 1604 moriva Fabrizio Sarriano primo conte di Casalduni; a succedergli nei suoi feudi di Casalduni, Ponte e Ferrarisi fu il figlio Pietro Il. Alla morte di questi, avvenuta dopo appena quattro anni, nel 1608, ereditò tutto il figlio Fabrizio II. Alla sua morte avvenuta prematuramente il 30 luglio del 1616, gli successe il figlio primogenito Pietro III. Essendo questi di minore età, sua tutrice fu nominata la madre Lavinia Minutolo, contessa di Casalduni. Appena un anno dopo, il 29 Novembre del 1617, moriva anche il giovane Pietro. Suo legittimo erede e successore fu il fratello Fabrizio III di appena dieci anni che tenne i feudi di Ponte e Casalduni fino alla morte avvenuta 18 gennaio del 1636.
A succedergli fu il figlio primogenito Giuseppe; data la sua minore età, suoi tutori furono nominati Anna Maria de Azzia contessa di Casalduni, Pietro Minutolo e Giovanni Antonio Sarriano. Giuseppe Sarriano fu signore di Ponte e Casalduni per cinquanta anni fino al 9 febbraio 1686, quando, con atto del notaio Domenico Bilotta di Pontelandolfo donava il titolo di conte di Casalduni e i suoi feudi al figlio primogenito, a nome Michele, al quale incombeva l’obbligo di provvedere anche al sostentamento degli altri suoi fratelli e cioè Domenico, Baldassarre, Nicola, Stefano, Carlo e Giovanni. Morto Michele il giorno 8settembre dell 709, con decreto reale del 7giugno 1713 ne fu dichiarata erede l’unica figlia di nome Saveria, in virtù del testamento paterno aperto in data 9 settembre del 1709.
La citata Saveria, essendo novizia nel monastero del Divino Amore di Napoli ed essendo intenzionata a prendere i voti aveva ceduto il feudo di Casalduni con il titolo di conte, nonché i feudi di Ponte e Ferrarisi con le difese di Aspro e Pantano, a Domenico Sarriano, suo zio paterno ed immediato successore. L’istrumento di cessione era stato stipulato in Napoli in data 3 febbraio 1713 dal notaio Nicola de Palma. Domenico Sarriano già conte di Casalduni, con diploma sottoscritto in Vienna in data 31 ottobre 1722, riceveva dall’imperatore Carlo VI d’Austria il titolo di duca di Ponte per sé e i suoi eredi e successori.
Si riporta qui di seguito la parte più importante ditale diploma: “Notum igitur ac plane nobis persectum est quod cum ex nobilissima ac antiquissima familia in citerioris nostro Siciliae Regno ducas (Don Dominice Sarriano) originem, quae jampridem cum praecipuis ejusdem Regni sanguinis nostri coniuncta multa ac praeclara praestitit, nihil unquam praetermisseris quo non solum maiores tuos de Augustissima domo nostra praeclare merito zelo ac fidelitate aequares verum eos longe superare omni conatu studiaris. Hinc est quod te tuamque familiam in aliqualem Regiae nostrae munificentiae erga eandem argumetum Titulo ac dignitate Ducis in dicto nostro citerioris Siciliae Regno cum qualitatibus et circumstantiis infra declarandis decorandum atque insigniendum duxerimus. Tenore igitur praesentium ex certa scientia Regiaque authoritate nostra deliberate, et consulto gratia speciali maturaque Supremi nostri Hyspaniarum rerum Consilii accedente deliberatione te supra memoratum D. Dominicum Sarriano Comitem de Casalduno tuosque haeredes et successores legitimos ex corpore tuo descendentes ordine successivo sexus et primogeniturae praerogativa servatis Ducem, et Duces feudi seu Terrae
de Ponte quam in Provincia Principatus Ultra justis et legitimis titulis possides facimus constituimus atque in perpetuum creamus, Feudumque ipsum seu Terram illiusque membra districtum et territorium ex nunc pro tunc in Ducatus titulum et honorem erigimus et extollimus, teque dictum D. Dominicum Sarriano tuosque utriusque sexus haeredes et successores legitimos ordine successivo sexus et primogeniturae praerogativa servatis Ducem et Duces supradicti Feudi seu Terrae de Ponte perpetuo dicimus et nominamus
Domenico Sarriano moriva in Napoli il 28 marzo 1733. Suo legittimo erede e successore fu riconosciuto il figlio primogenito Gaetano, che ottenne anche il titolo di 100 conte di Casalduni e 20 duca di Ponte. Morto Gaetano, il 1 febbraio del 1760 ottenne l’investitura dei suoi feudi il figlio Domenico II, che sette anni dopo, ne1 1767, veniva dichiarato infermo di mente; con decreto reale del 27 luglio dello stesso anno sua tutrice veniva nominata la madre Vittoria Lanfreschi la quale rinunziava in favore del suo secondogenito di nome Carlo. Questi fu duca di Ponte, conte di Casalduni e signore del feudo di Ferrarisi (Ferrariis o Ferrarese) fino alla sua morte avvenuta il 5 ottobre del 1801.
Successòre di Carlo fu il figlio primogenito di nome Gaetano che fu signore di Ponte e Casalduni fino al 1806 anno in cui entrò in vigore la legge francese sull’abolizione del regime feudale.
Ponte tra cronaca e storia - Giuseppe Corbo - Anno 1991 - L’ETA’ MODERNA E CONTEMPORANEA
Con la legge del 2 agosto 1806, emanata da Giuseppe Bonaparte, veniva soppresso un istituto che per secoli aveva oppresso le nostre popolazioni. Le terre e le rendite dei baroni furono assoggettate alle tasse, e le terre ecclesiastiche espropriate.
Fu deciso di dividere per quote e di vendere i terreni di proprietà dei comuni e quelli che erano stati espropriati al clero. Con questi provvedimenti si pensava di favorire la formazione di una classe media agricola.
In realtà le cose andarono diversamente; per fare solo qualche esempio basti pensare che il 65 per cento dei beni posti in vendita fu acquistato da un gruppo ristrettissimo di persone (154 in tutto il regno). Gran parte degli acquirenti apparteneva alla nobiltà: fra di essi c’era comunque anche un certo numero di commercianti e latifondisti di origine borghese.
Risultato concreto della legislazione .agraria fu quello di ridistribuire la nuova proprietà fondiaria all’interno della nobiltà e delle classi più elevate. I contadini che acquistarono terreni furono pochissimi perché essi teoricamente potevano concorrere all’acquisto delle terre poste in vendita, ma in pratica si trovarono nell’impossibilità di farlo per mancanza di capitali. D’altra parte gli obiettivi principali che si proponevano le autorità francesi erano per lo più circoscritti all’abolizione degli aspetti più marcatamente feudali. E’ probabile che all’inizio si pensò anche ad una riforma agraria che desse la terra ai contadini o quantomeno favorisse lo sviluppo di una borghesia agraria, ma le urgenti necessità finanziarie dello stato (soprattutto per il mantenimento dell’esercito) e l’atteggiamento diffidente del clero bloccarono la politica antifeudale impedendo che le terre andassero ai contadini.
Per quanto riguarda l’aspetto demografico, Ponte nel censimento del 1804 contava trecento abitanti ed apparteneva alla provincia di Terra di Lavoro, diocesi di Cerreto. La popolazione risultante dai censimenti dei secoli precedenti era la seguente: nel 1532, Ponte, che faceva parte del principato Ultra o Ulteriore, veniva tassato per 63 fuochi;(1) nel 1545 veniva tassato per 49 fuochi che salivano a 62 nel censimento del 1561 per poi ridiscendere ad appena 17 nel censimento del 1595.
Nel censimento del 1648 di Ponte non si hanno notizie mentre nel censimento del 1669 veniva tassato per 34 fuochi. Tornando al diciannovesimo secolo, Ponte insieme a Casalduni, Pontelandolfo, Campolattaro, S.Lupo e Remo, con decreto reale del 4maggio 1811, passava al Molise.
Successivamente, con decreto reale di Francesco I datato 12 giugno 1829, Ponte perdeva la propria autonomia amministrativa, venendo aggregato al comune di Casalduni.
Il 25 ottobre 1860, all’indomani dell’annessione dell’ex regno napoletano allo stato sabaudo, il pro dittatore Giorgio Pallavicino “In virtù dell’autorità a lui delegata “decretava che “L’antico ducato di Benevento diventava provincia del Regno italiano”. Poco dopo la costituzione della nuova provincia vennero interrogate le rappresentanze civiche di molti comuni per avere il loro assenso ad essere staccate dalle provincie di appartenenza ed entrare a far parte della nuova provincia di Benevento. L’assenso dell’amministrazione civica di Ponte arrivò in data 11 novembre.
Il 14 novembre il governatore Carlo Torre, per far stabilire la circoscrizione territoriale della nuova provincia, inviava al dicastero dell’interno la pianta topografica della stessa, accompagnata da una “memoria” che illustrava il concetto seguito per la sua delimitazione.
Alla “memoria” seguiva l’elenco dei comuni da includersi nei confini della nuova provincia e lo stato della popolazione. Il comune di Ponte, classificato come villaggio con una popolazione di 420 abitanti, risultava inserito nel distretto di Colle o Morcone e circondano di Pontelandolfo.(2)
In data 17febbraio 1861 con decreto del principe Eugenio di Savoia “Luogotenente generale di 5. M. nelle provincie napoletane” venivano fissati definitivamente i confini della nuova provincia di Benevento.
Come si presentava Ponte all’indomani della costituzione della nuova provincia? Così la descrive Alfonso Meomartini nella sua opera I comuni della provincia di Benevento scritta nel 1870: « Ponte è prossimo a Benevento, dal quale è distante chilometri 19 e 380 metri, e sulla linea Napoli-Foggia ha la stazione ferroviaria omonima, poco lungi dal paesello. Il quale s’erge sul superiore monticello in una fitta di case con l’aguzzo campanile che spicca sul culmine della collina. Altri casolari si nascondono fra gli alberi, giù per la discesa fin presso alla stazione, fra le acacie, i fichi d’India e gli olivi. Il Calore scorre poco lungi, a ridosso della stazione ferroviaria, ov’è il bello ed elegante ponte in ferro, costruito dall’ingegnere Fiocca, ad una sola sveltissima arcata. Ivi comincia la strada Vitulanese, che per la omonima valle sbocca poi a Montesarchio I principali proprietari del territorio di Ponte sono, i Pannella, i Capobianco e Nave, che domiciliano in Ponte, e i signori Marcarelli di Solopaca ».
Ponte, che era sempre frazione di Casalduni, veniva staccato da questo Comune in data 29 novembre 1892 e unito a Paupisi, ottenendo nel contempo di avere un bilancio separato e una lista elettorale propria con una rappresentanza massima di quattro consiglieri sui quindici presenti in consiglio.
Un fatto nuovo si verificò nel decennio successivo all’annessione a Paupisi; infatti mentre nel censimento del 1892 Ponte contava una popolazione di 554 abitanti questi salirono improvvisamente a 1569 nel censimento del 1901.
In conseguenza di questo notevole aumento demografico ci furono due richieste da parte dei Pontesi: la prima che fosse aumentata la propria rappresentanza in seno al consiglio comunale, visto che questo (proprio grazie all’aumento demografico di Ponte) era passato da 15 a 20 consiglieri; la seconda fu quella di riottenere l’autonomia comunale. Per la prima richiesta il Consiglio di Stato, a cui i cittadini di Ponte avevano fatto ricorso, con sentenza del 6 marzo1908 riconobbe il diritto di Ponte ad avere dieci consiglieri sui venti assegnati al comune di Paupisi - Ponte.
Per quanto riguardava la richiesta di autonomia il relativo disegno di legge, presentato dal rappresentante del collegio, On. Antonio Venditti, ebbe il parere favorevole della Camera dei Deputati nella seduta del 27 marzo1908, ma fu bocciato dal Senato nella seduta del 1 luglio 1908.
Intanto, a seguito della sentenza del Consiglio di Stato che aveva equiparato il numero dei rappresentanti di Ponte a quelli di Paupisi, in seno al consiglio comunale si era creata una situazione di stallo con la conseguenza di una completa ingovernabilità.
Forti anche di questa mutata situazione, i cittadini di Ponte continuarono nella loro lotta autonomistica e il 28 maggio del 1913 ad opera dei deputati Leonardo Bianchi e Antonio Venditti veniva presentata una nuova proposta di legge, tendente ad ottenere l’autonomia comunale. Finalmente, grazie anche all’interessamento del senatore D’Andrea, questa proposta veniva accolta dai due rami del parlamento.
Con legge 22 giugno 1913 N. 663 Ponte veniva finalmente riconosciuto comune autonomo.